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Diego Cason

Il limite come ordinamento del mondo

di Diego Cason


Il Green Deal Europeo mira a trasformare l’Unione Europea in una «società giusta e prosperosa, con un’economia di mercato moderna e dove le emissioni di gas saranno azzerate, e la crescita sarà sganciata dall’utilizzo di risorse naturali». Pensare a una crescita sganciata dall'utilizzo di risorse naturali appare decisamente utopico ma, se non ci si limita al significato letterale dell’affermazione, si comprende bene come l'obiettivo europeo sia quello di ridurre al minimo la dipendenza dai combustibili fossili il cui consumo è tra le prime cause dell'alterazione del clima. Il primo obiettivo del Green deal europeo è quello di rendere la produzione energetica europea un procedimento “pulito” ed ecosostenibile.


La produzione di energia elettrica, in particolare, è responsabile da sola dell’emissione di almeno il 75% delle emissioni di anidride carbonica, che ogni giorno vengono rilasciate nell’atmosfera. Tutto questo significa non solo investire sulla realizzazione di impianti di produzione di energia elettrica più compatibili con l’ambiente, ma anche ripensare alla mobilità individuale e collettiva, cambiare radicalmente il sistema di edificare le abitazioni, adottare criteri sostenibili nella produzione industriale modificare il nostro costume nel trasferimento delle merci e delle persone. Un vasto programma. Perché queste aspirazioni possono avere qualche possibilità di successo sarà necessario adottare comportamenti diffusi in vari ambiti volti a ridurre la produzione di ulteriore CO2 , il consumo e lo spreco di risorse.

Le foreste dolomitiche, dopo quelle svizzere, francesi e svedesi, hanno subito un evento catastrofico, un ciclone extra tropicale che ha devastato ed abbattuto circa 42 mila ettari di foresta, un’avvisaglia di probabili eventi catastrofici futuri determinati del cambiamento del clima terrestre.

Proprio partendo da questa esperienza di elevato impatto sui territori colpiti e sull’emotività delle persone coinvolte, sarebbe necessario valutare con molta attenzione l'approccio da adottare negli interventi per il ripristino delle strutture forestali distrutte o per il cambiamento di destinazione d'uso per quelle parti del territorio colpito per le quali si ritenesse più opportuna una evoluzione diversa da quella forestale.


La gestione del patrimonio forestale dolomitico è stata attuata secondo un modello che ricerca l'equilibrio tra le riprese annuali (i tagli selettivi da attuare) e la capacità di crescita delle piante non ancora mature per il taglio. Questo modello è molto diverso da quello attuato in altre parti d’Europa dove si taglia a raso un intero lotto di foresta, determinando una rotazione dei prelievi su territori molto vasti.

Vaia ha sicuramente messo in discussione l'idea di utilizzare la foresta come una piantagione di essenze vegetali destinate al consumo umano, ma mette in discussione anche l'utilizzo più rispettoso dell'evoluzione naturale delle biomasse che sta alla base del modello dolomitico. È evidente che il secondo modo di coltivazione del bosco è migliore del primo ma va messo in grande evidenza la fragilità di entrambi i tipi forestali.

Va detto, al fine di evitare fraintendimenti, che la forza distruttiva dei venti prodotti dal ciclone Vaia, avrebbe prodotto danni devastanti anche in foreste lasciate alla totale ed incontrollata evoluzione naturale. Il problema, quindi, non sta tanto nel definire pratiche colturali in grado di resistere ad eventi catastrofici come Vaia, al fine di salvaguardare il prodotto forestale nell'interesse umano. Si tratta invece di innescare una riflessione nella quale il bosco, che esercita numerose altre funzioni oltre a quella produttiva, sia considerato un patrimonio ecologico e paesaggistico di valore molto più elevato di quanto non sia quello calcolato in base al prezzo del legname a metro cubo.


È del tutto evidente che le pratiche colturali che sono state adottate nel corso dei secoli non vanno abbandonate, non sono queste pratiche la causa dei cambiamenti climatici in Dolomiti. Lo sono invece le folli politiche di deforestazione che procedono in tutte le foreste naturali del mondo e, in particolare, nell'ultima riserva forestale europea integra in Romania. Deve essere analizzato con particolare attenzione il fatto che le foreste sono un patrimonio gestito e utilizzato dai residenti che in molti casi ne sono anche i proprietari privati o collettivi ma sono anche un bene comune dell'umanità. Il motivo di questa affermazione sta nel fatto che i boschi sono i primi produttori di ossigeno da cui dipende la vita di tutto il genere umano. La loro coltivazione e la loro tutela non si esaurisce nel soddisfare un interesse locale ma si manifesta nella capacità delle foreste di mantenere il loro ruolo di regolatore del clima favorevole all'esistenza degli uomini.

Ecco perché anche il modello dolomitico di gestione forestale presenta dei limiti, benché sia un modo intelligente di gestire e utilizzare il bosco, non basta più. È, viceversa, altrettanto evidente che, per tutelare il patrimonio forestale, nell'interesse dell'umanità intera, serve una comunità residente che si prenda cura dei boschi e che, quindi, sia dotata di potere e di risorse sufficienti per svolgere questo ruolo in modo adeguato ed efficiente.

C’è una stretta relazione tra la solidità sociale ed economica delle comunità che custodiscono i patrimoni di biodiversità terrestri e l'interesse globale a favorire questa custodia. Basta osservare la realtà: dove le comunità locali sono deboli le risorse naturali di quei luoghi sono oggetto di rapina e gli ambienti ne sono devastati. Ne consegue che le comunità che dovrebbero assolvere a questo compito (come in parte hanno fatto finora) hanno la necessità della condivisione degli stessi strumenti di decisione di gestione e di amministrazione dell'oggetto delle loro cure. Da questo punto di vista Vaia è stato un rivelatore di questo elemento di debolezza. Le foreste dolomitiche dopo la sciagura di Vaia non hanno avuto le stesse cure e le cure non hanno avuto gli stessi effetti.

Chi ha seguito queste vicende, il giorno dopo Vaia comprese che le diverse strutture amministrative avrebbero determinato conseguenze differenti. Non si poteva certo pensare che una regione priva di amministrazione forestale come il Veneto fosse in grado di gestire i danni nello stesso modo di una provincia come quella di Bolzano dotata di un servizio forestale provinciale che gestisce i boschi pubblici di proprietà della provincia autonoma e un Corpo forestale provinciale (con 8 ispettorati e 38 stazioni) che s’occupa di gestire non solo il demanio, ma anche il resto del patrimonio boschivo, che ha una scuola forestale (Latemar) con una segheria demaniale capace di lavorare 6.000 metri cubi di legname anno. Il risultato di questa situazione parla da solo: in Alto Adige – Südtirol è stato recuperato il 100% del legname schiantato. Hanno venduto l’abete rosso ad un prezzo medio si 68 €m3, il larice a 116 €m3, il cembro 229 €m3 contro prezzi medi pre-Vaia di 95, 142, 248 €m3. Tutti i dati sono disponibili nel rapporto finale su Vaia1. In Veneto nel rapporto 2020 sullo stato delle foreste non si fornisce alcun dato sullo sgombero degli schianti si scrive solo che: «Il recupero del materiale schiantato è avvenuto, o sta procedendo, secondo diverse modalità e tempistiche»2 . Imbarazzante.

@ panaramka / Adobe Stock 462095405 Deforestazione della montagna Syvulya nei Carpazzi

A questo proposito Davide Pettenella del Tesaf dell’Università di Padova a avuto modo di affermare che: «Non c’è un sistema di rilevazione centrale che possa consentire di raccogliere e utilizzare i dati. Non esiste nemmeno un’unica metodologia concordata a livello delle singole amministrazioni regionali. Le informazioni raccolte sono buone nelle province autonome di Trento e Bolzano, sono abbastanza complete per il Friuli. Sono invece molto scarse quelle per il Veneto. L’Istat non ha attivato nessun intervento di monitoraggio e questo è un fatto a mio avviso abbastanza grave. I dati riportati sono stati raccolti grazie al coordinamento della Sisef, la Società italiana di selvicoltura ed ecologia forestale. A tre mesi di distanza dall’evento si è rivolta alle singole amministrazioni, sfruttando i mezzi di monitoraggio satellitare, e ha chiesto alle regioni e alle province autonome i dati sui metri cubi abbattuti. Da quest’indagine sono stati ottenuti gli 8,7 milioni di metri cubi di legname schiantati, ma è un dato che andrebbe aggiornato, perché sicuramente è una sottostima. Si tratta infatti di stime complesse, basti dire che non sono state considerate le formazioni boschive danneggiate al di sotto del 30%»3.

@ Travelvolo / Adobe Stock 485377828

L’abete rosso su strada, in Trentino è stato venduto dopo Vaia intorno al valore di 60-65 €m3 fino al maggio 2021 e a partire dal maggio 2020 il mercato ha iniziato a reagire bene alle aste, tornando ai volumi negoziati pre-Vaia e anche le riprese annuali ordinarie hanno raggiunto i prezzi che c’erano prima. Il Friuli nel 2019 è stato venduto legname a terra per 8-12 €m3, ma già all’inizio 2020 le aste segnalavano un rialzo a 69 €m3, in pochi casi e per partite di pregio di abete rosso si sono spuntati anche 130 €m3.

Vorremmo sapere tutti a quale prezzo medio è stato venduto il legname in Veneto ma questo sembra essere il quarto segreto di Fatima. Sappiamo però alcune cose. Che, quando il comune di Belluno è riuscito a vendere 18 mila m3 di legname a 26 euro a m3 è apparsa subito come una notizia di un affare vantaggioso; molte aste in Cadore hanno aggiudicato l’abete rosso da 12 a 22 €m3; le aste regionali fissarono nel 2019 le basi d’asta da 15 a 45 €m3, vendendo abete rosso e bianco, larice e pino silvestre allo stesso valore. Le aste dei boschi comunali non sono mai state chiuse con prezzi superiori ai 35 €m3, e il valore medio del legname venduto in Cina è stato di circa 28 €m3; la percezione diffusa è che d’ora in poi bisognerà pagare le imprese boschive per rimuovere il legname schiantato invece che ricavare qualcosa dalle vendite. Nel frattempo, tutto il legname semilavorato di abete ha registrato un incremento dei prezzi del 20%, del larice del 25%, complici la coda della pandemia e l’incremento dei prezzi dei combustibili per effetto anche della guerra in Ucraina. Si segnala che l’incapacità di stoccare e trasformare il legno in Italia ha determinato il calo dei prezzi di vendita in piedi e in strada dappertutto, ad esempio, in Piemonte nel 2021, l’abete bianco e rosso in piedi è stato venduto al prezzo medio di 27€/m3, il larice a 32 €/m3, mentre nel 2019 tali prezzi medi furono di 31 e 46 €/m3.

Questi dati parziali sono sufficienti a dimostrare due cose. La prima consiste nel fatto che, finché il mercato alpino del legname resta frazionato tra strutture amministrative esistenti e funzionali (che di solito stanno dentro alle regioni e alle province a statuto speciale) ed altre che non lo sono affatto, non vi sarà alcuna possibilità di gestire l'offerta di legname, sia proveniente da riprese ordinarie oppure da schianti che, anche in assenza di fenomeni come Vaia, si manifestano di frequente a causa di frane slavine e valanghe. La seconda consiste nel fatto che, se il territorio alpino non si dota di una struttura trasformativa del legname estratto dal bosco, trasformandolo in semilavorati e inserendolo in filiere produttive che permettano di aggiungere valore al prodotto, i boschi subiranno un costante declino. Pensare di mantenere in vita il bosco trasformandolo solo in legna da ardere o in cippato è una pia illusione, come lo è pensare che possa ritrovare centralità portandoci dentro i turisti a “rilassarsi” con il selviturismo. Ognuna di queste ipotesi può svolgere un ruolo ma nessuna, da sola e nemmeno in combinazione tra loro, è la risposta adeguata.

Alle note funzioni che il bosco svolge, tra le quali rientrano le precedenti, è necessario aggiungerne altre due: la conservazione in stock della CO2 che continuiamo ad emettere (ciò significa ampliamento della copertura vegetale in tutti i luoghi ove è possibile comprese le città, le aree industriali e commerciali, gli assi viari di comunicazione, ecc.), la protezione e la diffusione di ambienti ad elevata biodiversità sottratti al nostro utilizzo diretto.

@ officina23 / Adobe Stock / 285512259

Per contrastare il mutamento climatico non sono sufficienti le azioni volte a migliorare la tecnologia, soprattutto quella che si riferisce alla produzione di energia da fonti rinnovabili. Dobbiamo essere consapevoli che, tranne la fotosintesi, ogni tecnologia che punta a produrre energia, consuma energia e risorse naturali, spesso rare, la cui disponibilità è concentrata solo in alcune parti del pianeta. Allo stesso modo non sarà sufficiente nemmeno piantare un miliardo o dieci miliardi di alberi e nemmeno la riduzione drastica dei consumi di carne bovina e suina. Naturalmente tutte queste azioni sono utili e necessarie ma non saranno sufficienti.

Ciò che sarà necessario è un cambiamento radicale della nostra appropriazione rapinosa ed inefficiente delle risorse disponibili sul pianeta, in particolare quelle rinnovabili. L'umanità non potrà fare a meno di utilizzare le risorse disponibili sul pianeta per garantire la propria sopravvivenza ma dovrà farlo in modo più intelligente, più equo e meno devastante. Per quanto riguarda il nostro piccolo mondo dolomitico dove i boschi, nonostante Vaia, sono diffusi su vaste superfici e sono presenti in quantità molto elevate rispetto ai residenti che popolano questi territori, è evidente che il primo obiettivo da raggiungere sarà quello di garantire le diverse funzioni che i boschi svolgono ricercando un equilibrio tra di esse ed evitando di privilegiarne una a scapito delle altre5 .

Tutto questo può essere attuato solo se il bosco ridiventa centrale per le comunità che lo abitano. La cura e la valorizzazione delle foreste non riguardano solo i boscaioli o i proprietari, è un impegno che deve coinvolgere l'intera comunità. Se non si comprende che l’agricoltura del Sud Tirolo, del Trentino, del Veneto e del Friuli dipende strettamente dalle precipitazioni piovose e nevose che si accumulano in area dolomitica e delle Alpi Giulie, allora è inutile ripristinare i danni di Vaia, è inutile contrastare la diffusione del bostrico, è inutile ristrutturare l'amministrazione dei boschi e diventano inutili anche la ripresa economica forestale e la silvicoltura. Infatti, la massa forestale è strettamente legata al ciclo dell'acqua e, finché il consumo di acqua in agricoltura e ai fini del consumo umano è così inefficiente e sciaguratamente votato allo spreco, non vi è alcuna possibilità di invertire la tendenza al riscaldamento climatico e, di conseguenza, alla totale eliminazione dello stock di scorta d'acqua garantito da ghiacciai e nevai alpini.

Inoltre, l'esaurimento di queste scorte innescherà un conflitto inevitabile tra i diversi utilizzi dell'acqua, premiando i consumatori che potranno pagare il metro cubo d’acqua al prezzo più elevato. E tra questi non figurano al primo posto di sicuro i bacini antincendio, la conservazione della rete idrica montana (condizione essenziale per la salute dei boschi), l'agricoltura di montagna, la distribuzione capillare alle case sparse e ai villaggi alpini. Si prenderanno tutta l'acqua disponibile i produttori di acqua in bottiglia, i produttori di energia idroelettrica e gli agricoltori proprietari di terreni con colture ad alto valore aggiunto (proprio quelli che ora non pagano l'acqua e la sprecano in modo intollerabile) come frutteti, vigneti e orticoltura. Basta vedere le dimensioni dei portatori di interesse del primo tipo in relazione a quelli del secondo tipo per capire che i secondi hanno già vinto la battaglia dell'acqua.

@ casagrandelor / Adobe Stock / 370346587 - La diga del Lago Fedaia, ai piedi della Marmolada

Pensare di salvare le foreste dolomitiche rilevandone solo il valore ecologico-forestale è una mera illusione. Il ciclo delle acque, di cui la struttura forestale del territorio è condizione essenziale, è una questione eminentemente politica. Le comunità che non si attrezzeranno per governare e reggere questo scontro tra interessi perderanno. E poco importerà se queste comunità adesso sono le proprietarie dei boschi. Fra vent'anni non lo saranno più. Pensare che i diritti regolieri e le proprietà comunali rimangano tali, di fronte a una crescente richiesta d'acqua per tradurla in enormi profitti è un’irresponsabile ingenuità. Ed è altrettanto ingenuo pensare che l'autonomia politica e amministrativa delle province e delle regioni a statuto speciale possano essere uno strumento sufficiente per difendere un patrimonio il cui valore diventerà in futuro inestimabile. Specialmente se in area alpina questi territori, amministrati con statuti speciali, pensano di vincere questo conflitto da soli. Senza intervenire, ora, subito, per moderare la portata dell’innalzamento delle temperature in area alpina avrà effetti devastanti, dei quali l’essiccarsi dei fiumi alpini e del Po, di cui si parla in questi giorni, è solo un modesto anticipo.

Si tratta di immaginare il totale sconvolgimento dell'attuale modello produttivo ed insediativo sulle Alpi e a valle delle Alpi. Lo spopolamento dei territori alpini privi di autonomia è un fatto gravissimo e del tutto trascurato. Ci sono comunità che hanno perduto dal 70 al 90% dei residenti negli ultimi quarant'anni, il risultato è che nei prossimi 40 se ne andranno anche quelli che sono sopravvissuti poiché la struttura della popolazione non permetterà il ricambio degli attivi. Inoltre, anche coloro che attualmente sono residenti in area alpina non svolgono quasi più attività che li mettono in relazione con i mutamenti del territorio che li ospita, anzi, li induce a intervenire sulle realtà in territoriali con sempre maggiore incisività e rapacità. In molte località, per inseguire i profitti derivanti da attività agricole e turistiche, non si esita a sconvolgere equilibri ecologici e sociali delicati e difficili da ripristinare una volta distrutti.

Nel momento in cui le logiche di sviluppo di queste comunità non sono più determinate dagli interessi dei residenti ma degli investitori esogeni (che hanno logiche completamente differenti da quelle che hanno guidato finora le scelte delle comunità alpine) non sarà più possibile mantenere il sia pure precario equilibrio attuale. Anche i luoghi che hanno conosciuto un considerevole sviluppo e una crescente ricchezza non hanno visto crescere altrettanto il loro potere negoziale. Anzi, si sono fortemente indeboliti, per effetto della crescita delle rendite immobiliari in particolare delle abitazioni, degli edifici ad uso turistico, commerciale, produttivo e dei terreni agricoli. La sproporzione di valore è tale che induce i pochi residenti rimasti, quasi sempre di età avanzata, a vendere le proprie proprietà valutate anche dieci volte di più del loro valore di mercato normale. Si consideri che un’abitazione in centro urbano alpino normale ha un valore variabile tra gli 800 e i 1.200 € a m2. Nelle stazioni turistiche più importanti e nei centri dei capoluoghi questo valore può raggiungere anche i 18-22.000 € al m2. un ettaro di frutteto può valere in area periferica 30.000 €, in aree di produzione intensiva può giungere fino a 180.000 €. È evidente per chiunque abbia un minimo di competenze economiche, che questa divaricazione di valori non può che diventare luogo di speculazione, nella quale i proprietari attuali che non abbiano accumulato un capitale molto rilevante (per intenderci più di 3 4 milioni di euro) sono destinati a perdere i loro diritti di proprietà.


Se si ritengono queste osservazioni delle ipotesi di previsione probabilistiche, e quindi dotate di un'alea molto rilevante, sono costretto a togliervi questa ulteriore illusione. Ad esempio, già oggi metà degli alberghi e delle attività commerciali al dettaglio (il 72% nel caso dell’abbigliamento) di Cortina d'Ampezzo sono proprietà di forestieri. Questa dipendenza da imprenditori non locali per l'esercizio delle attività economiche stimolate dalla attrattività turistica è destinata a crescere non solo in Veneto, ma anche in Trentino e in Alto Adige, dove le prime avvisaglie di calo della popolazione più giovane si fanno vedere per la prima volta dopo 35 anni di crescita. Soprattutto se la domanda turistica internazionale, salvo altre catastrofi quali il Covid, sarà destinata a crescere, come la maggior parte degli osservatori del mercato turistico internazionale affermano.

@ Aleksandr Mozgovoi / Adobe Stock / 209559281 Ortisei, in Val Gardena, qui il valore medio al mq di una casa supera gli 8.000 €/mq

Si dovrebbe comprendere abbastanza chiaramente che la questione della gestione dei boschi e, in generale, del contrasto al riscaldamento climatico, può essere condotta con successo solo se si mantengono le dimensioni di queste attività economiche locali sotto il controllo dei residenti e se le si sottopone a limiti di crescita invalicabili. Se lasceremo che l'evoluzione di questi luoghi sia determinata dalle leggi del mercato, svincolate dalla ricerca dell'interesse comune dei residenti (e guardando in modo più approfondito anche degli ospiti), il risultato sarà che questi territori diventeranno luoghi di speculazione totalmente sganciati da ogni considerazione sugli effetti che una crescita irragionevole può produrre in territori fragili ed instabili. Questa fragilità e instabilità, non è solo geologica, come spesso si suppone, ma è anche demografica, culturale ed economica.

Accettare il limite, dunque. Ci sono due modi di declinare l’accettazione di un fatto, la prima consiste in un subire in modo inerte l’evento: accettazione come rassegnazione. La seconda sta nella radice etimologia della parola stessa accipere, dal verbo capere, intenzione di prendere o accogliere qualcuno o qualcosa. Accogliere il limite come un’ospite gradito che ci torna utile.

Il primo significato rinvia alla penitenza, con la rinuncia, con la punizione alla rinuncia a soddisfare i propri desideri, a un ostacolo. Se si propone un limite con questo intendimento otterremo un immediato ed esteso rifiuto. Se invece si concepisce il limite nel significato che ad esso assegnarono i Romani, allora esso diventa una pietra che segna i confini ma anche il percorso giusto da seguire, la soglia che ci conduce in un latro luogo. I limiti erano sacri posti sotto la protezione della divinità omonima Termine (Giove Terminus), l’unica che rifiutava sacrifici cruenti e accettava in dono solo foglie e petali di fiori per ornare i suoi simulacri. Ma già Eraclito aveva ben chiara la questione: «I confini dell’anima non riusciresti a trovare, per quanto cammini percorrendo ogni strada: così profonda ne è la misura.» (Eraclito, 22B45 DK).

L’anima ha confini (peirata) così remoti che non è dato raggiungerli; la sua misura (logos) è così profonda che è impossibile esplorarla interamente. La profondità dell’anima è resa con l’aggettivo bathús, che è associato al fitto della nebbia o all’intrico di un bosco, tanto arduo è il cammino che viene intrapreso al suo interno. L’altro termine greco per “confine” è horos, frontiera che separa due terre ma anche pietra che ne mostra il limite. Horos indica il criterio che consente di isolare un concetto o un’esperienza, che li separa e definisce; il suo potere vincolante ne riconosce la necessità, come garante di un ordine. Il limite è il confine tra il caos e il cosmo, e nel nostro caso contemporaneo tra l’ordine imperfetto della democrazia e l’arbitrio mortale della guerra. Senza la definizione e l’accoglienza dei limiti, nulla sarebbe stato creato, nulla avrebbe un nome e un’identità riconoscibili. Il limite è l’elemento ordinatore del mondo ma anche lo strumento per sopportare la paura del caos. L’infinito tò apeiron, “il senza confine” attira e inquieta per la sua ingovernabilità come un abisso senza fondo.

Ecco, siamo giunti in vista di un confine che è meglio non superare, non per arginare le proprie paure ma per fermare la brama insaziabile di potere sul mondo che d’ora in poi può distruggerlo. Almeno il mondo benigno che ci ospita e ci ha accolto finora. È giunto il tempo della cura dopo la sbornia di potere tecnologico senza fine e, apparentemente, capace di risolvere ogni problema. Dobbiamo prenderci cura del mondo, non fare altri danni, ridurre la nostra voracità non per sacrificio ma perché ci fa stare meglio.


Questo è il senso della proposta di salvaguardare la biodiversità e la funzione ecologica del bosco di cui parla “Un green deal per le foreste dolomitiche” che il territorio devastato da Vaia ci permette di sperimentare e praticare. Prendersi cura del bosco significa accogliere il limite che Vaia ha messo a nudo: non c’è bosco al mondo che resista a raffiche di 190 km orari. Ben si comprende che non basta piantare nuovi alberi e accudire quelli che già ci sono, si tratta di impedire che il cambiamento del clima diventi permanente rendendo inospitale una quantità di territori incalcolabile con effetti devastanti. Non sarà però possibile ottenere risultati rilevanti se non si procede ad una più equa divisione delle risorse tra i popoli e tra le persone: come potremmo chiedere di rispettare i limiti a chi ancora non li vede quando noi li abbiamo da molto tempo superati?


Dobbiamo prenderci cura dei nostri simili praticando la solidarietà, la condivisione e la giustizia affinché si possa vivere in pace. Dobbiamo prenderci cura di coloro che non conosciamo perché se il mutamento riguarda solo una élite non c’è salvezza per nessuno. Dobbiamo avere cura del diritto dei posteri ad ereditare una terra accogliente e non un pianeta depredato in preda ai conflitti. Dobbiamo farlo perché questo è l’unico modo per avere cura di noi stessi e per garantirci la sopravvivenza della specie. È anche l’unico modo per verificare se siamo una specie sapiens oppure stultus, destinata all’estinzione per la propria incapacità a rispettare i limiti entro i quali dovremmo imparare di nuovo a stare.


Note:


1) Provincia autonoma di Bolzano Ripartizione foreste Vaia 2018 report finale, Danni meteorici e schianti da vento del 27/10/2018 al 30/10/2018 in Alto Adigehttp://www.provincia.bz.it/agricoltura-foreste/servizio-forestale-forestali/downloads/IT_VAIA_Endbericht_12_2020.pdf

2) Veneto Agricoltura, Rapporto sullo stato delle foreste e del settore forestale in Veneto, 2020, https://www.venetoagricoltura.org/wp-content/uploads/2021/07/Raf-Veneto-web.pdf

3) Davide Pettenella, intervista di Francesco Suman su Il Bo Live dell’Università di Padova https://ilbolive.unipd.it/it/news/legname-dimenticato-anno-dalluragano-vaia

4) Davide Pettenella, Nicola Andrighetto e Alberto Udali, Tesaf, Andamento dei prezzi del legname dopo la tempesta Vaia, Webinar del 28 maggio 2021

5) È noto che i boschi hanno diverse funzioni nei più importanti sono quelle di protezione (della stabilità del suolo montano e dell'equilibrio idrologico dei versanti) di produzione (che non si limita al legname tagliato), turistico-ricreative, paesaggistica, di conservazione della biodiversità (che determina in modo rilevante i climi e i microclimi locali) e di stoccaggio della CO2. A proposto dell’ultima funzione si ricorda che ogni anno, i boschi dolomitici assorbono circa 5 milioni di tonnellate di anidride carbonica (CO2) e li trasformano in 3,5 milioni di m3 di legno.





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