di Tommaso Martini
Fototeca di Trentino Sviluppo spa - Foto di Carlo Baroni
Si sta concludendo un’altra stagione estiva da tutto esaurito in Trentino. Una situazione che ci pone nuovamente davanti a tutte le contraddizioni dei nostri tempi e, soprattutto, davanti all’urgenza del cambiamento. Come può inserirsi Slow Food, come movimento culturale e associazione ambientalista, in questo dibattito? Proviamo a dare alcune risposte negli articoli che vi presentiamo in questo numero, consapevoli della complessità del tema e dalle molteplici implicazioni.
Negli incontri “Road to mountains” condotti durante i mesi di lockdown abbiamo incontrato alcuni produttori di Presìdi Slow Food delle aree montane e interne italiane nel tentativo di capire insieme a loro qual è il legame con il turismo attuale e futuro dei rispettivi territori. Gli incontri hanno interessato tutta Italia, dall’arco alpino alla dorsale appenninica fino agli altopiani calabri e alle catene montuose siciliane. Sono emerse alcune costanti che vale la pena analizzare.
Un elemento invariabile ha a che fare con il concetto di comunità. Tutti i produttori soddisfatti dall’andamento delle proprie aziende evidenziavano un forte legame con gli altri produttori, con i ristoratori e, più in generale, con tutto il tessuto territoriale. Al contrario, le aziende in difficoltà operano completamente slegate dal contesto. L’agricoltura e l’allevamento di montagna hanno bisogno di comunità con il suo portato di valori identitari e lo stretto legame con l’intelligenza affettiva. Un concetto molto caro a Slow Food, un nuovo paradigma che si basa sulla cooperazione e la solidarietà in contrapposizione alla competitività e all’indifferenza, cifre del modello di sviluppo economico “cittadino”. In questo contesto si inserisce il rapporto con il turismo. L’importanza della coesione del tessuto in cui il turista viene accolto, il benessere dei residenti e delle attività permanenti, sono degli elementi fondamentali per la qualità dell’esperienza turistica.
Nel corso di “Road to mountains” ogni appuntamento si è concluso chiedendo al produttore di immaginare la propria realtà e il proprio territorio da qui a dieci anni. L’orizzonte del ricambio generazionale era comune a tutti ma con la consapevolezza che le nuove generazioni potranno innestare sulla tradizione un bagaglio di conoscenze e nuove tecniche acquisito grazie a percorsi formativi e esperienze sempre più specifiche. E ciò soprattutto nel campo dell’accoglienza. L’integrazione tra attività agricole e di allevamento e quelle ricettive è il nuovo modello per garantire una sostenibilità economica e la permanenza in montagna e nelle aree interne. La difficoltà di vivere con l’esclusivo apporto del “reddito rurale” richiederebbe infatti l’applicazione di modelli estensivi non adatti ai territori e all’idea di futuro che si vuole perseguire.
Turismo in chiave slow quindi significa incontro tra i produttori del cibo buono, pulito e giusto e la comunità in cui essi stessi vivono e integrazione al reddito agricolo con attività turistiche. In questo modo acquistano un significato non meramente commerciale i concetti quali turismo esperienziale e autenticità. Un turista accorto percepisce se esiste realmente una sinergia tra attività ricettive e il territorio o se questo legame è ridotto a mero folklorismo, ostentazione artificiosa di una finta tradizione del tutto slegata con il luogo. Lo slow travel è un continuo incontro con chi vive il territorio, la comunità fatta di ristoratori, agricoltori, artigiani, residenti, che si raccontano in prima persona e trasmettono la resistenza quotidiana all’omologazione per rendere il proprio territorio unico, salvaguardarne la biodiversità culturale, umana e ambientale. D’altra parte il turismo nasce proprio per questo, per ricercare lo straordinario, per concedersi una pausa dal quotidiano. Per questo concetti come identità, valore e comunità devono essere alla base di un nuovo turismo. L’alternativa è l’abbandono alla mera dimensione ludica come esemplifica l’idealtipo del “post-turista” teorizzato da John Urry: “«Il mondo è un palcoscenico e il post-turista può divertirsi con una moltitudine di giochi ai quali può partecipare. […] Il post turista sa di essere un turista e che il turismo è un gioco, o piuttosto un’intera serie di giochi con molteplici testi e senza un’autentica singola esperienza turistica».
Il cibo si inserisce in questa riflessione come veicolo di conoscenza e identità ma affinché ciò possa accadere davvero è necessaria una presa di coscienza di tutta la comunità coinvolta come abbiamo sottolineato nell’articolo “Nessuno si salva da solo” pubblicato su Slowzine di gennaio. Diventa fondamentale un patto di territorio che riconosca l’importanza delle attività agro-silvo-pastorali nel mantenimento del paesaggio e che si traduca in un costante dialogo, anche commerciale, con le attività ricettive.
Altro fenomeno interessante per un approccio slow al turismo è la nascita di un nuovo modello orizzontale in cui ogni territorio è potenzialmente al centro dell’interesse turistico, non più riservato esclusivamente alle località che hanno catalizzato i flussi nei decenni passati. Le località minori devono però mettere in atto azioni di governance del turismo per non essere snaturate da questa opportunità.
Rimangono da affrontare alcune grandi questioni. Il fenomeno dell’overtourism, la transizione a una mobilità leggera, il rischio di rendere il turismo un privilegio riservato ai redditi più alti, come far fronte al cambiamento climatico e alle sue ripercussioni, la cosiddetta “turistificazione” urbana con il conseguente spopolamento di interi centri storici, sono temi che richiedono riflessioni attente.
Dell’affollamento delle nostre valli, che è comune a quello delle città d’arte e località balneari, abbiamo parlato un anno fa grazie a un articolo di Annibale Salsa (cfr. Slowzine n. 2 – settembre 2020) in cui l’antropologo parlava della necessità di sviluppare “anticorpi della consapevolezza dei luoghi”. Il noto albergatore Michil Costa ha parlato in questi giorni di turismo “porno-alpino” per indentificare una monocultura legata solo all’aspetto economico dimenticando ogni altro valore. Criticare il turismo di massa può cedere il fianco a una concezione elitaria e aprire il dibattito se il turismo sia un diritto o un privilegio. La teoria che un turismo di qualità non è necessariamente legato ad un aumento dei costi e di conseguenza ad uno sbarramento al suo accesso è ancora tutta da dimostrare e pone degli interrogativi di non facile risposta.
Quel che è certo è che il tema del turismo, così radicato nei territori e per sua natura non de-localizzabile, esemplifica la necessità di ragionare in termini “glocali” in cui il contesto particolare diventa protagonista delle dinamiche globali e si inserisce nei grandi cambiamenti che la pandemia e la crisi climatica devono innescare.
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